Gli interni-inferni di David Lynch e l’installazione al Salone del mobile
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David Lynch: il regista crea mobili da oltre venti anni
e degli spazi domestici all’interno dei suoi film: inquietanti e ingannevoli
Interiors by David Lynch. A Thinking Room: questo è il titolo dell’installazione concepita da David Lynch per il Salone del Mobile che si inaugura il 16 aprile. E già il titolo racchiude in sé quell’effetto trompe l’oeil, intenzionalmente un po’ disorientante, che è tanto caro al regista di Twin Peaks e di Velluto blu: perché parla di Interiors, al plurale, ma poi menziona una sola Thinking Room, mentre gli organizzatori garantiscono che ci saranno due stanze, identiche e speculari, quasi due porte simboliche da attraversare prima di tuffarsi nella fantasmagoria del Salone. Stanze del pensiero. Ma anche luoghi per riflettere. Per far emergere l’inconscio e trasformarlo in spazio.
L’installazione di Lynch per il Salone del mobile in uno schizzo
Lynch lo fa da sempre, fin dai suoi primi film sperimentali degli anni Settanta. Sin da The Grandmother e Eraserhead. Crea mondi intrisi di incubi e meraviglie. Universi che collegano razionale e irrazionale, conscio e inconscio, affascinante e disgustoso. Mondi “altri” e surreali, nei quali ci si smarrisce e – a volte – ci si ritrova. La stanza è da sempre la cellula fondamentale dell’universo di Lynch, ed è al contempo singolare e plurale (come Interiors/Room): ogni sua Room è unica, ma in un certo modo si somigliano tutte. Sono spazi chiusi e autosufficienti, con evidenti richiami a stanze dipinte dai due artisti preferiti da Lynch, Edward Hopper e Francis Bacon. La stanza-matrice, quella che riassume e concentra tutte le altre, quella che si è insediata nell’immaginario collettivo fino a diventare quasi l’emblema dello spazio onirico lynchiano, è la leggendaria Red Room di Twin Peaks: immersa in una sorprendente luce rossastra, circondata da pesanti tende rosse ondulate, con un pavimento zebrato e zigzagante, color avana e terra di Siena, in una superficie che inganna lo sguardo, confonde e ipnotizza, la Red Room è una sala d’attesa che connette alla Black Lodge (un luogo di confine tra vita e morte, ignoto e inquietante), ma al contempo è il palcoscenico del represso, il teatro dell’inaccessibile, secondo alcuni l’utero primordiale in cui nascono e si plasmano i nostri incubi. Ma anche il luogo in cui emerge la doppiezza morale degli abitanti di Twin Peaks.
La Red Room di Twin Peaks: tendaggi di velluto rosso, pavimento a spina di pesce, due lampade luminator e una statua classica al centro
Ci sono molte altre stanze nel cinema di Lynch. Alcune sono richiamate fin dal titolo delle sue opere: Hotel Room, per esempio, è un film composto da tre episodi ambientati in anni diversi ma tutti situati nella medesima camera d’albergo, la numero 603. Lynch riduce al minimo gli arredi (un telefono, una radio, fotografie di treni in corsa alle pareti) e gioca con l’oscurità, arrivando a realizzare uno dei tre episodi – intitolato Blackout – quasi interamente immerso nel buio, annullando i contorni fisici dello spazio e lasciando che la narrazione si sviluppi solo attraverso le voci dei personaggi che emergono e galleggiano nell’oscurità. Ancora una volta, la stanza come spazio oscuro, luogo chiuso e segreto, dove lo sguardo si perde.
Non tutti gli interni lynchiani sono così. Accanto a questi spazi dichiaratamente onirici, ve ne sono altri che mettono in scena una apparente normalità: quella che si suppone costituisca la vita quotidiana di cittadine apparentemente tranquille come Lumberton o Twin Peaks. Velluto blu inizia ad esempio con una panoramica sulle recinzioni in legno bianco delle affascinanti case unifamiliari della cittadina, con rose rosse e tulipani gialli in primo piano. La casa del protagonista Jeffrey ha un salotto con divanetto floreale bianco, tende di sfondo anch’esse bianche con motivi floreali, e poi alcune statuette, un abatjour con paralume rosso e un televisore sempre acceso. Arredi ordinari di un decoro borghese di provincia. Ma è proprio questa “normalità” che Lynch si diverte a infrangere e incrinare: dietro l’ordinario affiora presto l’inatteso, il perturbante, il minaccioso. La rivelazione del mondo perverso che si cela sotto l’apparenza idilliaca di Lumberton implica anche un cambiamento negli interni e negli arredi: non per nulla la stanza dell’“uomo nero” Frank – con il tappeto a rigoni verde e rosa, le poltrone verdi e il tavolinetto in bambù – appare come dietro un sipario, delimitata da due tendaggi verdi (colore che richiama quello dell’armadio con ante a tapparella in cui Jeffrey si era nascosto per spiare Dorothy), quasi a suggerire che quel luogo è il teatro dell’orrore. Tende e drappeggi sono del resto uno dei leitmotiv degli interni di Lynch: dalla stoffa che ondeggia come un sipario sui titoli di testa di Velluto blu ai tendaggi color malva scuro di Mullholland Drive, la tenda è un elemento-soglia che al contempo separa e nasconde, ma a volte rivela o accende la curiosità o il desiderio di vedere oltre, di accedere con lo sguardo a spazi e tempi proibiti.
Una scena simmetrica di Eraserhead: due lesene in marmo, due applique e il pavimento a spina di pesce inquadrano Henry
Ma è l’idea stessa di casa a essere ambivalente e inquietante in Lynch: dall’appartamento-prigione di Eraserhead all’abitazione inquietante, con i suoi interni freddi e cimiteriali, di Strade perdute, la casa si configura spesso come falso rifugio, come spazio in cui si annidano fantasmi di morte e pulsioni di perversione. È lì che bisogna guardare. E riflettere. È il ruolo e il compito dell’arte: quello di farci attraversare le red rooms immaginarie per farci entrare poi più sicuri e consapevoli nei luoghi della realtà. Al Salone del Mobile come nella nostra vita.