Massimo Caiazzo: in trent’anni ne ho fatte di tutti i colori

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con Madre Natura. Dipinta a mano e stampata in 3D, l’installazione celebra la vita, la sua forza e la sua fragilità attraverso la bellezza di tutti i colori del mondo 

Da una carrozzeria di all’atelier di . Due mondi che sembrano così distanti e poco affini eppure la storia di Massimo Caiazzo, il più rinomato italiano che quest’anno festeggia 30 anni di carriera, ci insegna il contrario. «A differenza dei miei amici, da piccolo sceglievo i modellini delle macchinine in base al colore», inizia a raccontare. «Non contento amavo frequentare un’officina di piazza Bellini dove Don Vittorio mi aiutava a dipingerle e mi spronava a sperimentare». Poi la svolta: «Durante il liceo classico, il professore di filosofia ci parlò della teoria dei colori di Goethe: ne fui così colpito che decisi di approfondire il tema».

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Massimo Caiazzo, a sinistra, insieme ad Alessandro Mendini nel cui atelier milanese lavora dal 1990 al 2006: «Era l’unico studio colorato in anni in cui dominava il nero» 

Gli studi proseguono a e il 1990 segna un altro incontro fondamentale: quello con Alessandro Mendini. «Mi accolse in un’atmosfera policroma, conquistandomi immediatamente: in quegli anni era tutto nero, l’atelier invece era l’unico studio colorato. Fu l’inizio di una proficua e lunga collaborazione durata 16 anni caratterizzata da una forte affinità elettiva. Alessandro mi ha stimolato a osare usando il cuore e mi ha insegnato a confrontarmi con tutti i temi del design».
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The People è l’orologio lanciato nel 1992 per celebrare uno speciale traguardo: i cento milioni di Swatch prodotti 

Nella sua carriera Caiazzo ha collezionato una lunga serie di opere che spaziano dall’industrial design all’arte, dall’architettura a progetti per il sociale usando sempre un approccio che coniuga aspetti scientifici e umanistici. Temi appresi dopo la lettura di un altro libro. «Color, Environment, & Human Response di Frank Mahnke mi ha cambiato la vita. Quando Mendini stava lavorando al di Groninger aveva previsto una sala completamente rossa. Mi domandai: “Chissà che cosa comporterà?” Andai in libreria e trovai questo volume: lo divorai e corsi da lui per metterlo in guardia: “Se realizziamo un ambiente tutto rosso le persone avvertiranno un aumento della temperatura dal punto di vista della percezione psicologica, del battito cardiaco e del ritmo della respirazione. Quindi a lungo andare quella stanza potrebbe avere ripercussioni negative”. Alessandro mi rispose che avrebbe confermato il rosso perché era un ambiente dove le persone non dovevano sostare a lungo. Dopo qualche mese ci riferirono che gli zerbini di quelle aree erano consumatissimi proprio a causa di questo ipercinetismo. Da lì ho iniziato a studiare gli elementi cromatici come legati alla biologia e all’anatomia e ad altri aspetti scientifici perché il colore non è solo estetica: il corpo, la psiche e tutto il nostro apparato ormonale reagisce a esso e alla luce».
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Il Carciofo cromatico (1990) è presente nelle collezioni di alcuni musei tra cui il Musèe des Arts Dècoratifs di Parigi 

Ma oggi c’è ancora poca consapevolezza sulla sua importanza. «A causa di un vuoto formativo», conferma Caiazzo «e al fatto che si tende a seguire pedissequamente le tendenze del momento». E se negli ultimi decenni il bianco ha spopolato nelle nostre case, oggi c’è un’inversione di tendenza: «Che fa disastri quanto la mancanza di colori. Stiamo passando a luoghi iperstimolanti che sono altrettanto dannosi: il segreto è avere equilibrio».
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Il progetto no-profit di riqualificazione cromatica del carcere di Bollate ha migliorato la qualità di vita dei detenuti 

C’è un lavoro a cui è più legato? «Se devo sceglierne uno direi quello del carcere di Bollate una grande sfida, durata due anni, che mi ha promosso a presidente per l’Italia di Iacc (il più importante ente formativo dedicato alla diffusione della conoscenza professionale sull’impiego del colore, ndr). Gli effetti positivi furono immediati. L’obiettivo era verificare quanto il colore e la luce possono realmente migliorare la vita in condizioni estreme come quelle dei detenuti. Ed è qui che uno di loro mi ha rivolto la frase più bella che qualcuno mi abbia mai detto: “Devo ringraziarla perché mia figlia adesso è più contenta di venirmi a trovare”».

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